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Poesia che mi guardi

La piú ampia raccolta di poesie di Antonia Pozzi finora pubblicata, l’intero diario, un’importante scelta di lettere e alcuni saggi (dalla tesi di laurea su Flaubert a un intervento su Aldous Huxley).
I testi sono stati rivisti sui manoscritti, a cura di Graziella Bernabò e Onorina Dino.
In appendice approfondimenti critici di Fulvio Papi, Dino Formaggio, Gabriella Scaramuzza, Eugenio Borgna, Giovanna Calvenzi, Goffredo Fofi e un intervento di Roberta de Monticelli. Il libro ci guarda attraverso le fotografie scattate a e da Antonia Pozzi: un elemento figurativo imprescindibile per comprendere lo sguardo della poetessa.
Poesia che mi guardi è anche un film di Marina Spada, allegato al libro in dvd.

Prima di uccidersi, il 3 dicembre 1938, Antonia Pozzi ha lasciato un’ultima lettera ai genitori. Dopo averla bruciata, il padre l’ha “ricostruita” a memoria. L’autografo contiene questa frase: “fa parte di questa disperazione mortale anche la crudele oppressione che si esercita sulle nostre giovinezze sfiorite…”
Fa parte di questa disperazione mortale la crudele oppressione che un’Italia gretta, meschina, conformista, violenta nella sua viltà, ha esercitato sulla vita intellettuale (e fisica) di Antonia Pozzi. “Scrivi il meno possibile”, le avevano detto i suoi amici, letterati e filosofi.
Il 4 febbraio 1935 Antonia appuntava nel suo diario “Ma che diritto ho io di parlare dei miei versi?”
Una oppressione ambientale, tanto piú soffocante quanto piú inerziale, “involontaria”. Il pensiero poetico di Antonia Pozzi era infinitamente altro. Pensiero poetico consapevole e pieno, non culturalmente disarmato come troppo a lungo ci hanno fatto credere quei nani che azzoppano i giganti per sembrare piú alti.
Il pensiero di una donna, in Italia, negli anni Trenta, che diceva lo scandalo dell’esistenza. Troppe forze si sono affrettate a normalizzare la sua voce. Troppi rifiuti sono arrivati a strozzare la sua domanda, a negare la validità del suo interrogativo.
A frustrare la ricerca di un “realismo umano” (ancora dal diario del 4 febbraio 1935) che “vorrebbe nascere e non può, in nessuna forma della realtà può esprimersi, come un pianto che non trova gli occhi per cui sgorgare, un sorriso che non ha volto in cui aprirsi.
Rifiuti, da tutta la realtà, a ogni passo. E a ogni passo, nuove ricerche per una foce che non esiste. E che non deve esistere.
Di questo la coscienza mi avvisa. Donarsi è abdicare alla propria personalità.”

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