“Come salire la scala di cui non si conosce né l’inizio né la fine?” (144. 504. 864).
È questo il compito al quale siamo chiamati nella lettura di Disputa cometofantica, nell’affidarci allo stretto intreccio di nominazione e numerazione proprio dell’opera.
Disputa cometofantica si articola in tre parti. La prima è composta da 1080 frasi e copre l’intero arco del libro. La seconda si sovrappone alla prima a iniziare dalla frase 370. La terza si sovrappone alle prime due rispettivamente alle frasi 721 e 361. Detto altrimenti: la prima parte nasce dal silenzio; la seconda parte non attende a iniziare quando la prima termina, ma a essa si congiunge; e così accade anche alla
terza parte, dando origine a una sorta di stratificazione, che sembra obbedire alle leggi generali della stratigrafia geologica.
Che cosa ci indica questa struttura? Ci segnala che la vicenda si svolge su più piani sovrapposti.
La prima parte copre l’arco temporale comprendente passato, presente e futuro; la seconda parte riguarda il presente e il futuro. La terza parte si svolge nel futuro.
La narrazione di Saffaro è una forza che non retrocede fino al punto in cui la storia diventa per la prima volta accessibile, ma va oltre: verso il non-luogo e il non-tempo dell’origine: verso la pre-storia e verso il non-vissuto.
Attraverso questi punti di insorgenza “percorriamo dunque la doppia spirale degli eventi” (352) che sembra spingerci verso il fuoco della conoscenza, verso l’inarrivabile suo fondo (45. 405). Scrive Saffaro: “L’incendio, che ogni notte sembra allontanarsi un poco di più, forse è la parte più misteriosa della notte stessa” (117. 477).
Talvolta l’inconosciuto si presenta attraverso indizi lasciati cadere a caso, attraverso segni consegnati alla nostra interpretazione. Quanto fallace possa essere tale interpretazione ce lo conferma Saffaro alla fine dell’opera: “L’attesa si è spezzata in tre parti: due sono state calate nell’aureo sepolcreto del caso, la terza sarà innalzata sull’asta gentilizia come effimero trofeo” (343. 703. 1063).
Ma sarà solo con l’ultima frase che Saffaro giungerà a indicare la possibilità ventura di un nuovo inizio, ulteriore rispetto al primo inizio del pensiero, destinandoci così a una via che porterà il pensiero dell’essere a quell’inizialità che il pensiero stesso richiede per l’altro inizio: “Nominatemi sempre” (360. 720. 1080). – Flavio Ermini